30 marzo 2007
Confermare, congratularci, chiedere perdono/ Atto I
 "I buoni e i cattivi risultati delle nostre parole e delle nostre azioni si vanno distríbuendo, presumibilmente in modo alquanto uniforme ed equilibrato, in tutti i giorni del futuro, compresi quelli, infiniti, in cui non saremo piú qui per poterlo confermare, per congratularci o chiedere perdono" José Saramago, "Cecità"
Atto primo - La conferma
Che Giannantonio ci fosse, c'erano pochi dubbi. Era pesante, intorno ai cento chili, con capelli unti lunghi fino alle spalle, qualche cicatrice sulla faccia e un sorriso che sputava sole. Sempre rivestito di coloratissime palandrane esotiche e poncho peruviani originali, certamente non passava inosservato. Eppure, ovunque andasse, Giannantonio aveva bisogno di conferme. Se era in compagnia di noi amici, la questione era di poco conto. Ogni tanto ci prendeva sottobraccio e noi già conoscevamo la domanda che ci stava per piombare addosso, un bisbiglio scagliato alla velocità di uno shuttle: - Ehi raga, ci sono ancora, vero? Ci bastava un cenno per tranquillizzarlo: piegare la bocca da un lato, verso l'alto, oppure sollevare le sopracciglia aprendo i palmi delle mani o strizzare l'occhio in segno di sicuro assenso. Il problema nasceva quando noi non c’eravamo. Giannantonio era capace di fermarsi a prendere il caffè ogni ora in un bar diverso per essere "riconosciuto" dal barista. Salutava chiunque, avido di "ciao". Aveva provato con gli sms, ma non aveva funzionato: nel lasso di tempo tra il suo invio e la risposta teoricamente avrebbe potuto morire senza che il destinatario del messaggio lo avesse saputo. Il riscontro, dunque, non era valido. E non c'era nulla di peggio che potesse immaginare, se fosse morto, degli sms che avrebbero continuato ad arrivare sul suo telefonino e delle e-mail che la sua casella di posta avrebbe continuato ad accogliere. Una ressa indistinta e immateriale alle calcagne di un cadavere. L'origine di quella sua ossessione si annidava in un cortometraggio che aveva trasmesso la Rai quando era bambino. Doveva aver avuto quattro o cinque anni, era tardi e lui era seduto sul divano con i suoi genitori, mezzi addormentati davanti alla Tv. All'improvviso era cominciata una specie di rassegna di corti. Come poteva sapere che il secondo gli avrebbe cambiato la vita? A pensarci bene, se quel film di dieci minuti era davvero come ce lo raccontava, rimasto immune ai tiri che gioca la memoria, non avrebbe dovuto essere guardato da un bambino. "I protagonisti sono un ragazzo e una ragazza che non si conoscono – ci diceva sudando – ma che un giorno assistono, in momenti diversi, a un incidente stradale. Nella scena successiva sembra passare qualche tempo. Girovagano per la città, sono vestiti normalmente, fumano, guidano. Però non c'è tanta gente e l'atmosfera è strana. Si incontrano spesso, ma all'inizio non ci fanno caso. Poi si siedono sui gradini di una chiesa o di un monumento, non ricordo, e vedono avanzare verso di loro il ragazzo che era disteso a terra dopo l'incidente. Soltanto in quel momento capiscono. Capiscono di essere morti". Si era spaventato come può spaventarsi soltanto un bambino, non ancora avvezzo a misurarsi con l'ignoto, privo degli strumenti di consolazione che gli adulti sono così abili a perpetuare: la cieca fiducia della fede, la liquida fusione del sesso, la potenza maieutica dell'arte. Da allora in poi, il risultato si era materializzato sotto gli occhi di tutti quelli che gli volevano bene: un'affannosa ricerca di conferme alla sua esistenza. Fastidiosa per gli altri perché esplicita, non sotterranea e mimetizzata come quella di qualunque essere umano. Una notte di agosto eravamo da soli a fumare erba sulla torretta di un castello diroccato, in cima a un paese arrampicato sull'Appennino. Lui rollava serissimo una canna dopo l'altra, a gambe incrociate. Io ero sdraiato con un braccio sotto la testa e gli occhi al cielo, come voleva Hugo. Lo citai a voce impastata: "C'è chi si fissa a vedere il buio. Io preferisco contemplare le stelle". "Potessero parlare", sospirò Giannantonio. "In che senso?", chiesi io, alzandomi sui gomiti. "Potrebbero rassicurarmi loro, no?" "Con tutto il rispetto – dissi spazientito – non ti è mai venuto in mente che quel corto fosse un'emerita stronzata? Non hai mai pensato che fosse tutto un bluff, il parto della fantasia di un regista fuori di testa, una cazzo di balla grande quanto una casa? Non sai che quando moriamo i corpi si decompongono e puzzano fino a ridursi a un pugno di ossa che chiamiamo scheletri?" Giannantonio smise per un attimo di rollare, mi regalò un'occhiata di sufficienza e quel suo sorriso sputa-sole e poi riprese a maneggiare maria e cartine. Io mi rimisi giù sbuffando. Intorno a noi una pioggia di stelle, traiettorie di luce a smagliare la calza nera del cielo, una ragnatela siderale a racchiuderci senza sfiorarci. Eravamo niente, eravamo tutto. Mi arresi: "Ci siamo, Gian, adesso ci siamo".
© Emmeper
| inviato da il 30/3/2007 alle 14:29 | |
23 marzo 2007
La gossippazione ci seppellirà
Altro che globalizzazione. Questa è gossippazione: l'invasione gigantesca, irrefrenabile e catartica del gossip nella società. Un mostro che assottiglia pericolosamente le differenze tra Repubblica e Novella 2000, tra Il Corriere della sera e Verissimo. Un'atrocità cresciuta piano piano, sotto gli occhi di tutti, attraverso le feste con nani e ballerine, le cerimonie salottiere di Porta a Porta, le cene istituzionali ad Arcore, le Santanché e le Carfagne deputate, gli ex Pci in doppiopetto a fare affari con le assicurazioni e le banche, la Melandri che balla nella villa di Briatore e (diosanto, perché?) lo nega, gli operai con la spilla di Forza Italia. Una mutazione genetica.
Come si può non condividere le parole dello scrittore Antonio Scurati sulla Stampa, che paragona il gossip a una "macina nichilista"? Come non si può applaudire quando scrive che anni di scandalismo non hanno condotto a una moralizzazione della classe dirigente ma a un "cinismo immoralista dell'opinione pubblica"?
Triste, ma vero. Ed è inutile stare a discutere se le foto di Sircana con trans andassero o meno pubblicate, se i mass media siano buoni o cattivi, se il Garante sia un coglione o un crociato della privacy, se Lele Mora sia un benefattore o Il Gran Viscìd, se Rcs abbia occultato le foto per chissà quale disegno occulto. Il voyeurismo è diventato lo sport nazionale, trasversale e bipartisan. La bandiera patria che unisce il povero al ricco, che annulla le differenze sociali, che fa sperare le ragazzette che si spogliano su YouTube in un futuro da Aide Yespiche o Elisabette Gregoraci, che fa autofilmare i ragazzetti mentre palpano le insegnanti. 'A livella.
Triste, ma vero. Triste soprattutto che sia sempre il sesso - il tabù che scava e prude le finto-cattoliche coscienze degli italiani - a tenere banco. "Questa discrepanza tra etica privata e pubblica non è di oggi", dice Umberto Galimberti intervistato da Enrico Arosio sull'Espresso di questa settimana. "E' il risultato di 2mila anni di morale cristiana. Perché la morale cristiana giudica individualmente, e nell'individuo scatta il perdono. In pubblico si dice la regola, nel confessionale ci si pente di averla trasgredita. E' la doppia coscienza degli italiani". Vengono in mente i tanti paladini della doppia morale cristiana, da Casini a Fini, fino a Mastella (il più esilarante).
Questo è un Paese non liberato, retto da gente che doveva cambiare il mondo e si è accontentata di cambiare il suo conto in banca. Noi siamo i figli, educati a televisione e videogame, a Internet, blog e telecamere. Siamo "pubblici" e pubblicati, con una soglia del pudore calata ai minimi storici. Ma sapete che c'è? Meglio andare in giro fieri senza mutande - mostrarsi, dichiararsi, esibirsi a testa alta - piuttosto che vergognarsi. Meglio ostentare un'intelligente indifferenza che essere costretti a confessare "una stupida curiosità" di una notte di fine estate.
P.S. Il dipinto è "Les liaisons dangereuses" di René Magritte, 1926
| inviato da il 23/3/2007 alle 20:52 | |
9 marzo 2007
I prima e i dopo
 Vincent Van Gogh, Girl in white in the woods (1882)
Eravamo in un grande ospedale pediatrico, sabato scorso. Eravamo pesci fuori luogo, lontanissimi dall'acqua, accorsi per portare un conforto impossibile. Matteo se n'è andato a otto mesi, il suo cuore non ce l'ha fatta a sopravvivere di più. Ogni morte è ingiusta, quella di un bambino ancora di più. Non c'è fede che tenga. Matteo ha lasciato una mamma e un papà ventenni, straziati, cerei.
Abbiamo capito là, dentro una stanzetta soffocata dall'attesa, che nella vita di ognuno di noi c'è un prima e un dopo. Una linea di cesura. L'orizzonte degli eventi, oltrepassato il quale si imbocca il buco nero e si finisce per sparire. Ci sono orizzonti collettivi, storici - l'incoronazione di Augusto primo imperatore romano, il genio di Leonardo Da Vinci, il nazismo, l'omicidio di Kennedy, il primo uomo sulla Luna, l'11 settembre 2001 - e ci sono orizzonti individuali, intimi. Se ci pensiamo ognuno di noi ne ha uno. I fortunati si beano nel prima per anni, gli sfortunati precipitano subito nel dopo. Il prima diventerà memoria. Il dopo è in principio orrore, poi spesso saggezza. Dall'alto pare un immenso disegno cosmico: rette inviduali e stringhe collettive, con lo spazio e il tempo che mutano in base al punto di osservazione. Siamo niente, siamo già morti, rinasceremo. Arrivederci, piccolo Matteo.
| inviato da il 9/3/2007 alle 20:27 | |
4 marzo 2007
Moccioserie

Oggi siamo indubbiamente mocciosi.
| inviato da il 4/3/2007 alle 21:1 | |
2 marzo 2007
La parola che nessuno vorrebbe sentire
 August Macke
"Ehi! Ehii sono qui! Ma dove guardi? Pensavi che avrei lasciato questa storia in sospeso? Succede, sì, è vero. Succede anche questo: che uno non sempre finisca ciò che ha iniziato. Secondo me, invece, si arriva sempre a una fine, solo che spesso non è come uno se la immagina; non è detto che le risposte avute siano come ce le aspettavamo, così a volte non le consideriamo. Si arriva a una fine e non ce ne accorgiamo. E a volte sono gli altri a decidere dove quando come perché mettere la parola fine."
(Andrea Brancolini, "Succede che a volte", L'Autore libri Firenze, 2002)
Ci perdoni l'autore, narratore interrogativo che trabocca di domande e di incisi. Ma non troviamo altro modo, per ora, per ringraziarlo di mille doni, musicali, letterari e vocali. Se non questo: una citazione virtuale, da tenere a mente. Sempre. Per fare più attenzione. Per consolarci. Il mondo è pieno di persone speciali: la fortuna è accorgersene. Buon fine settimana.
| inviato da il 2/3/2007 alle 20:50 | |
|